Durata: 4 ore
La visita inizia da Palazzo Reale centro di comando dei Savoia e prosegue nell'Armeria Reale, con la sua splendida collezione di armi e armature. Si arriva nella Cappella della Sindone, mirabile architettura barocca progettata da Guarino Guarini. Si prosegue nella Galleria Sabauda che conserva grandi capolavori, da van Eyck a Rubens e van Dyck, da Mantegna, a Paolo Veronese, a Orazio Gentileschi, a Guido Reni nonché due importanti collezioni: quella di pittura fiamminga e olandese del Principe Eugenio di Savoia-Soissons e quella del finanziere Riccardo Gualino. Il piano terreno è arricchito dalla sezione dedicata alla pittura del Rinascimento in Piemonte e dalla Galleria Archeologica. Sull’area archeologica del Teatro Romano si affaccia il Museo di Antichità che conserva reperti provenienti da scavi condotti sul territorio piemontese. Infine, i Giardini Reali, con un’estensione di sette ettari, rappresentano il cuore verde del complesso museale e sono liberamente accessibili.
Durata: 3 ore
Il mito nella decorazione e nelle collezioni del museo. La visita inizia da Palazzo Reale, centro di comando dei Savoia, e prosegue nell'Armeria Reale, nella Galleria Sabauda e nel Museo di Antichità alla ricerca delle rappresentazioni mitologiche nelle collezioni dei Musei Reali. Scarica la mappa con il percorso suggerito e goditi le meravigliose bellezze dei Musei Reali!
Sulla cancellata che delimita l’area di piazzetta Reale e che accoglie i visitatori dei Musei provenienti da piazza Castello è incastonato il volto di Medusa, la figura mitologica dai capelli di serpenti e dagli occhi capaci di pietrificare chiunque li guardi: unica figlia mortale dei mostri marini Forco e Ceto, Medusa era un tempo, come racconta Ovidio, bellissima e desiderata da tutti, ma venne poi violentata da Zeus nel tempio di Minerva che, in collera per l’oltraggio subito, decise di punire la giovane, rendendola orripilante e facendo in modo che nessuno potesse più rivolgerle lo sguardo. La sua chioma meravigliosa fu allora trasformata in un groviglio di serpenti e suoi occhi furono resi letali a chiunque le rivolgesse lo sguardo, e Medusa andò ad abitare ai confini del mondo, sulle coste del mare delle Esperidi, dove un giorno fu raggiunta e sconfitta dall’eroe Perseo.
Dopo averne trasformato l’aspetto, Minerva indossò l’effige di Medusa sul proprio scudo e sulla propria armatura, come ci ricordano moltissime opere d'arte tra le quali diversi dettagli tra le opere dell’Armeria e un Busto di Minerva nella Galleria Archeologica, e l’immagine della Gorgone divenne presto anche simbolo di forza: per questo motivo sin dall’antichità la rappresentazione di Medusa è stata utilizzata sia come augurio di sconfitta e morte, sia come simbolo di protezione.
Oltre che da Medusa, la cancellata di Palazzo Reale è sorvegliata anche da due altre figure della mitologia greca, note per la loro forza in battaglia e per le imprese eroiche compiute in vita: si tratta di Castore e Polluce, che sarebbero nati dall’unione tra Leda, regina di Sparta, e Zeus, tramutatosi in cigno per giacere con la donna: dopo il loro incontro, la donna avrebbe partorito un uovo da cui sarebbero usciti i due fratelli, noti nel mito come Dioscuri, che in greco antico significa “figli di Zeus (dio)”.
Secondo alcune versioni, soltanto Polluce era in verità di stirpe divina, mentre il fratello era stato generato dal mortale Tindaro, re di Sparta, città nella quale i due fratelli furono venerati fin dall’antichità come protettori dei giochi atletici. I Dioscuri, uno pugile e l’altro cavaliere, nella tradizione mitologica presero parte a diverse imprese, come il magico viaggio degli Argonauti alla conquista del vello d’oro o la battaglia contro i mariti delle figlie di Leucippo, aggredite e violentate proprio dai due, in seguito per questo puniti. Durante lo scontro, infatti, Castore venne ucciso e Polluce, distrutto dal dolore, pregò Zeus di donare nuovamente la vita al fratello. Il padre, commosso dalle sue preghiere, stabilì che la morte e l’immortalità sarebbero state condivise allo stesso tempo da entrambi: Castore e Polluce da allora trascorrono, alternandosi, un giorno sull’Olimpo e uno nell’Ade.
Sull’armatura di questo Busto di Minerva proveniente dalle collezioni reali è raffigurata l’effige di Medusa, la figura mitologica dai capelli di serpenti e dagli occhi capaci di pietrificare chiunque li guardi: unica figlia mortale dei mostri marini Forco e Ceto, Medusa era un tempo, come racconta Ovidio, bellissima e desiderata da tutti, ma venne poi violentata da Zeus nel tempio di Minerva che, in collera per l’oltraggio subito, decise di punire la giovane, rendendola orripilante e facendo in modo che nessuno potesse più rivolgerle lo sguardo. La sua chioma meravigliosa fu allora trasformata in un groviglio di serpenti e suoi occhi furono resi letali a chiunque le rivolgesse lo sguardo, e Medusa andò ad abitare ai confini del mondo, sulle coste del mare delle Esperidi, dove un giorno fu raggiunta e sconfitta dall’eroe Perseo.
Dopo averne trasformato l’aspetto, Minerva indossò l’effige di Medusa sul proprio scudo e sulla propria armatura, come ci ricordano non solo il busto della Galleria Archeologica, ma anche molti dettagli di opere dell’Armeria Reale. L’immagine della Gorgone divenne presto anche simbolo di forza: per questo motivo sin dall’antichità la rappresentazione di Medusa è stata utilizzata sia come augurio di sconfitta e morte, sia come simbolo di protezione, e come tale si trova raffigurata anche sulla cancellata che delimita l’area di piazzetta Reale e che accoglie i visitatori dei Musei al loro arrivo da piazza Castello.
Ercole, il più forte tra gli eroi del mito, in vita affrontò grandi imprese, uscendone sempre vittorioso: nato da Zeus e Alcmena, sin dall’infanzia attirò su di sé la collera di Era, moglie legittima di Zeus, infuriata per i tradimenti del marito. Fu proprio tra le punizioni che la dea volle infliggere all’eroe che Ercole fu colpito da un eccesso d'ira e follia durante il quale uccise la moglie Megara e i figli: per espiare questo tremendo delitto, Ercole dovette sostenere le celebri dodici fatiche, difficilissime prove di coraggio, forza e astuzia che da sempre furono grande fonte di ispirazione per gli artisti. Tra questi anche Jan Miel, pittore di corte dei Savoia, che raffigurò un momento di questa vicenda, il sonno nel Giardino delle Esperidi, nella parte bassa della tela posta al centro del soffitto della Sala del Trono del Palazzo Reale: nell’opera, nota come Trionfo della Pace, Ercole viene raffigurato mentre si riposa dopo aver portato a termine la penultima delle dodici imprese, che lo chiamò a raccogliere dei magici pomi dorati nel Giardino delle Esperidi, antichissime ninfe nate dal Giorno e dalla Notte che abitavano ai confini del mondo su un’isola sorvegliata da un terribile drago. Ercole domò il mostro e raccolse i frutti, come rappresentato in un altro dipinto delle collezioni reali, realizzato da Pieter Paul Rubens e conservato in Galleria Sabauda: infine l’eroe si concesse il meritato riposo, addormentandosi nel Giardino.
La penultima delle famose dodici fatiche erculee fu affrontata da Ercole nel Giardino delle Esperidi: è questo il soggetto dipinto in quest'opera realizzata da Pieter Paul Rubens nel 1638 e conservata nella Galleria Sabauda.
Ercole, il più forte tra gli eroi del mito, in vita affrontò grandi imprese, uscendone sempre vittorioso: nato da Zeus e Alcmena, sin dall’infanzia attirò su di sé la collera di Era, moglie legittima di Zeus, infuriata per i tradimenti del marito. Fu proprio tra le punizioni che la dea volle infliggere all’eroe che Ercole fu colpito da un eccesso d'ira e follia durante il quale uccise la moglie Megara e i figli: per espiare questo tremendo delitto, Ercole dovette sostenere le celebri dodici fatiche, difficilissime prove di coraggio, forza e astuzia che da sempre furono grande fonte di ispirazione per gli artisti. La penultima delle dodici imprese chiamò Ercole a raccogliere dei magici pomi dorati nel Giardino delle Esperidi, antichissime ninfe nate dal Giorno e dalla Notte che abitavano ai confini del mondo su un’isola sorvegliata da un terribile drago. Ercole domò il mostro e raccolse i frutti: Rubens rappresenta l’eroe al culmine dello sforzo, mentre schiaccia la testa del mostro con la sua clava e raccoglie le mele. Su un dipinto del soffitto della Sala del Trono nel Palazzo Reale, poi, il pittore Jan Miel raffigura il momento di riposo successivo alla fatica, mostrando Ercole addormentato nel Giardino delle Esperidi.
Negli anni Trenta del Settecento Carlo Emanuele III incaricò il pittore di corte, Claudio Francesco Beaumont, di dipingere sulla volta del Gabinetto cinese del primo piano nobile di Palazzo Reale un affresco raffigurante il cosiddetto Giudizio di Paride, il mito che racconta quando al giovane troiano Paride viene chiesto di scegliere la più bella tra le dee dell’Olimpo.
Al banchetto per le nozze di Peleo e Teti, genitori dell’eroe Achille, erano stati invitati tutti gli dèi, tranne Eris, dea della discordia, che per ripicca decise di rovinare la festa con un tranello. Gettò in mezzo alle divinità una mela d’oro con incisa sopra la scritta “Alla più bella” e iniziò una contesa tra Era, moglie di Zeus, Afrodite, dea della bellezza, e Atena, dea della sapienza. Per placare il litigio, Zeus decise che a stabilire la vincitrice sarebbe stato Paride, il più bello tra i mortali. Si recarono dunque dal giovane, figlio di Ecuba e Priamo, sovrani di Troia, e domandarono di scegliere chi delle tre fosse la più bella. Ciascuna promise un’importante ricompensa: Atena saggezza e sapienza, Era il dominio dell’Asia, Afrodite l’amore della donna più bella del mondo. Paride diede il pomo della discordia ad Afrodite e lei gli donò l’amore di Elena, moglie del re di Sparta Menelao e più bella tra le mortali, il cui rapimento avrebbe poi portato all’inizio della guerra di Troia, narrata nell’Iliade di Omero.
L’affresco di Claudio Francesco Beaumont mostra le tre dee davanti al giovane Paride, in atto di donare il pomo ad Afrodite, seduta al centro, con Cupido ai suoi piedi. Accanto a lei, sulla sinistra, Atena indossa l’elmo con il quale si racconta che fosse nata e, sulla destra, si trova Era, scortata da due pavoni. Paride accoglie le dee in abiti da pastore perché, dopo che la madre Ecuba ebbe in sogno la premonizione che il figlio avrebbe causato la rovina della città, fu cresciuto sui monti. Prestando attenzione ai putti che decorano la volta, noterete che uno sorregge un ritratto femminile che raffigura una delle mogli di Carlo Emanuele III, che dedicò queste pitture alla consorte, idealmente identificata con “la più bella”: spostando lo sguardo verso l’angolo di sinistra, noterete infatti la dedica “à la plus belle” svolazzare in un raffinato cartiglio!
Lo sapevate che esiste un nome per indicare la sorgente dell’ispirazione poetica? Si chiama “Ippocrene”, la sua storia affonda le radici nella mitologia greca e l’Armeria Reale ne espone una sua rappresentazione su una raffinata fiasca per polvere, appartenente a una collezione di fucili donati dal duca di Baviera Massimiliano I in occasione delle nozze del figlio Ferdinando Maria di Wittelsbach con Enrichetta Adelaide di Savoia, celebrate nel 1650.
Un giorno le Pieridi, le nove figlie del re della Tessaglia Pierio, osarono sfidare in una gara di canto le Muse, divinità protettrici delle arti, figlie di Zeus e Mnemosyne. La sfida avvenne sul monte Elicona, che, inondato dal canto divino delle dee, iniziò a gonfiarsi e, secondo alcune versioni del mito, addirittura si alzò in cielo. Allora Pegaso, il magico cavallo alato nato dal sangue sgorgato dalla decapitazione di Medusa, colpì con uno zoccolo il monte Elicona per bloccarne la crescita divenuta incontrollabile. Dal punto nel quale Pegaso affondò la sua zampa iniziò a sgorgare una fonte di acqua purissima, chiamata Ippocrene, che da allora viene riconosciuta come la fonte dell’ispirazione poetica e luogo sacro alle Muse.
Sul fronte della fiasca, realizzata da officine tedesche con materiali molto preziosi quali oro, argento, madreperla e avorio, sono raffigurati i personaggi del mito: a sinistra Pegaso crea la fonte dell’Ippocrene, al suo fianco si trova Minerva, dea della saggezza, mentre il coro delle Muse occupa la parte destra.
Su un archibusetto (un particolare tipo di arma da fuoco) barocco dell’Armeria Reale è raffigurato il mito di Io, una principessa talmente bella da aver attirato su di sé l’attenzione degli dèi: un giorno Zeus, mentre la ragazza faceva ritorno a casa, le si avvicinò e, come racconta Ovidio, la invitò a unirsi a lui tra gli alberi. Io, spaventata dalla situazione, iniziò a correre lontano dal bosco, ma Zeus la inseguì e per possederla si trasformò in una densa nebbia con la quale avvolse la fanciulla. Era, infuriata per l’ennesimo adulterio del marito, diradò la nebbia per interrompere l’amplesso, ma dal grigiore comparve non più la bella ragazza, bensì una giovenca: Zeus, per proteggere l’amante, l'aveva trasformata in un animale da pascolo, che fu donato a Era come pegno d’amore. Da quel momento la sventurata principessa venne imprigionata e posta sotto la sorveglianza di Argo, creatura sempre vigile grazie ai suoi cento occhi. Sotto forma di giovenca Io incontrò anche il padre Inaco, disperato per aver smarrito la figlia prediletta, che dopo averla riconosciuta grazie al nome scritto nel fango con gli zoccoli esclamò: «Sarebbe stato meglio non trovarti, perché la mia sofferenza sarebbe stata più lieve! Taci, e muta non mi rispondi […] tutto ciò che puoi fare è muggire alle mie parole». La drammatica prigionia di Io terminò quando Zeus ordinò a Mercurio, suo messaggero, di uccidere Argo e liberare la giovane. Odiata oltre ogni misura da Era, Io vagò perseguitata dai tafani fino al confine tra Europa e Asia, che attraversò a nuoto, regalando allo stretto del Bosforo il nome attuale - passaggio della giovenca - e infine approdando in Egitto. Qui, trasformata nuovamente da Zeus, Io venne venerata come la dea Iside.
Sulla superficie dell’archibusetto dell’Armeria sono riconoscibili due momenti del racconto: sul manico troviamo Mercurio che, con il canto, addormenta Argo prima di ucciderlo, mentre lungo la canna dell’arma è raffigurata Io sotto forma di giovenca.
Tra il Seicento e il Settecento ebbe grande fortuna artistica il mito della dea Aurora, un soggetto che fu ritenuto molto adatto allo sfarzo degli ambienti aristocratici e che infatti nelle sale di Palazzo Reale si può ammirare in diverse sale: qui si può apprezzare in una grande tela dipinta intorno al 1730 dal pittore di corte Claudio Francesco Beaumont e posta al centro del soffitto a cassettoni della Camera da letto del principe Umberto II, al secondo piano della residenza; altre due versioni, entrambe opera di Daniel Seiter, si trovano nel centrovolta della stanza da letto di Carlo Alberto e in uno dei medaglioni della camera di Vittorio Amedeo II.
È la storia della dea dalle “dita rosee” Aurora, che alla guida di un carro trainato da cavalli annuncia l’arrivo del giorno e porta la luce nel mondo degli dèi e degli uomini, seminando i prati con gocce di rugiada: avvolta da un’aura luminosa, in tutte queste rappresentazioni Aurora regge in mano un calice infuocato, simbolo delle prime luci dell’alba.
Aurora appartiene alla più antica stirpe olimpica, nata dai titani Iperione e Tea, figli della Terra e del Cielo. Si racconta che tra i suoi amori ci fu anche Titone, affascinante principe troiano, con il quale la dea volle restare unita per sempre. Chiese dunque a Zeus di rendere Titone immortale, dimenticando però di domandare per lui anche l’eterna giovinezza, condannandolo involontariamente a invecchiare per sempre, incapace quasi di parlare. Una versione tarda del mito racconta che Aurora volle porre termine alle sofferenze dello sposo trasformandolo in una cicala dalla voce stridula.
Ecco la storia della dea dalla “dita rosee”, Aurora, che alla guida di un carro trainato da cavalli annuncia l’arrivo del giorno e porta la luce nel mondo degli dei e degli uomini, seminando i prati con gocce di rugiada. Aurora appartiene alla più antica stirpe olimpica, nata dai titani Iperione e Tea, figli della Terra e del Cielo. Si racconta che tra i suoi amori ci fu anche Titone, affascinante principe troiano, con il quale la dea volle restare unita per sempre. Chiese dunque a Zeus di rendere Titone immortale, dimenticando però di domandare per lui anche l’eterna giovinezza, condannandolo involontariamente a invecchiare per sempre, incapace quasi di parlare. Una versione tarda del mito racconta che Aurora volle porre termine alle sofferenze dello sposo trasformandolo in una cicala dalla voce stridula.
La rappresentazione del mito di Aurora ebbe grande fortuna durante il Seicento e il Settecento, ritenuta un soggetto adatto allo sfarzo degli ambienti aristocratici. Anche nelle sale di Palazzo Reale è possibile ammirare la dea: nel centrovolta della stanza da letto di Carlo Alberto, in uno dei medaglioni della camera da dormire di Vittorio Amedeo II, entrambe opere di Daniel Seiter, e in una grande tela di Claudio Francesco Beaumont, che campeggia al centro del soffitto a cassettoni della Camera da letto del Principe Umberto II al secondo piano della residenza. In tutte le scene Aurora è avvolta da un’aura luminosa e regge in mano un calice infuocato, simbolo delle prime luci dell’alba.
Ecco la storia della dea dalla “dita rosee”, Aurora, che alla guida di un carro trainato da cavalli annuncia l’arrivo del giorno e porta la luce nel mondo degli dei e degli uomini, seminando i prati con gocce di rugiada. Aurora appartiene alla più antica stirpe olimpica, nata dai titani Iperione e Tea, figli della Terra e del Cielo. Si racconta che tra i suoi amori ci fu anche Titone, affascinante principe troiano, con il quale la dea volle restare unita per sempre. Chiese dunque a Zeus di rendere Titone immortale, dimenticando però di domandare per lui anche l’eterna giovinezza, condannandolo involontariamente a invecchiare per sempre, incapace quasi di parlare. Una versione tarda del mito racconta che Aurora volle porre termine alle sofferenze dello sposo trasformandolo in una cicala dalla voce stridula.
La rappresentazione del mito di Aurora ebbe grande fortuna durante il Seicento e il Settecento, ritenuta un soggetto adatto allo sfarzo degli ambienti aristocratici. Anche nelle sale di Palazzo Reale è possibile ammirare la dea: nel centrovolta della stanza da letto di Carlo Alberto, in uno dei medaglioni della camera da dormire di Vittorio Amedeo II, entrambe opere di Daniel Seiter, e in una grande tela di Claudio Francesco Beaumont, che campeggia al centro del soffitto a cassettoni della Camera da letto del Principe Umberto II al secondo piano della residenza. In tutte le scene Aurora è avvolta da un’aura luminosa e regge in mano un calice infuocato, simbolo delle prime luci dell’alba.
All’estremità nord dell’aulica Galleria del Daniel di Palazzo Reale si trova un’elegante raffigurazione di Iride: il nome di questa giovane dea, sorella delle temibili arpie, creature dal volto di donna ma con il corpo di uccello, ha un’etimologia controversa. Per alcuni la parola Iride deriverebbe dal verbo eiró, che significa annunciare, e già nei poemi omerici la si ritrova nelle vesti di ancella di Zeus e Era, come portatrice di notizie. I simboli tradizionalmente associati a Iride sono due grandi ali dorate, il caduceo, ossia lo scettro del suo alter-ego maschile Mercurio e, soprattutto, l’arcobaleno. Infatti, la parola Iride in greco antico significa anche arcobaleno che, a differenza di quanto accade nella nostra cultura, era segno di un presagio negativo, e infatti in questo senso nella mitologia Iride è anche messaggera di sventure.
Nel Palazzo Reale la figura di Iride ricorre in numerosi affreschi, a compendio delle volte popolate dagli dèi dell’Olimpo. La sua presenza è sempre segnalata da un arcobaleno e da vesti svolazzanti, che indicano la rapidità con cui arrivano le cattive novelle. Al piano nobile del Palazzo, la volta della Galleria del Daniel costituisce un capolavoro seicentesco del pittore viennese Daniel Seiter, artista al servizio di Vittorio Amedeo II. L’affresco celebra l’arrivo del duca tra gli dèi, intorno a lui numerose figure popolano i riquadri della volta, conferendo grandezza alla scena. Tra queste anche Iride, che accoglie i visitatori all’inizio della Galleria. Se per gli antichi era simbolo di sventura, per noi l’arcobaleno indica pace e inclusione.
L’alloro è la pianta che tradizionalmente viene associata al successo in campo artistico, letterario, accademico o sportivo: in una scena a pittura monocroma, affrescata sul finire del Seicento da Daniel Seiter in un riquadro della Galleria del Daniel del Palazzo Reale, è dipinto il momento clou della storia da cui prende origine quest’uso, il mito di Apollo e Dafne.
Si narra che Apollo, protettore delle arti e delle scienze, avesse importunato Eros, il quale utilizzò le proprie frecce per punirlo. Con la prima, fatta d’oro e capace di fare sorgere l’amore, colpì Apollo affinché si innamorasse della bella Dafne, con la seconda, di bronzo e capace di generare repulsione, mirò la fanciulla. Accadde allora che, desideroso del suo affetto, il dio incominciò a rincorrere la ragazza, ma più le si avvicinava, più lei fuggiva, fino a che, stremata dall’inseguimento, supplicò il padre di aiutarla. Il mito racconta che a quel punto Dafne, appena raggiunta da Apollo, iniziò a trasformarsi in una pianta e riuscì in questo modo a sfuggire all’amante indesiderato. Non potendo avere la fanciulla, il dio decise che l’alloro, l’albero nel quale era avvenuta la metamorfosi di Dafne, sarebbe divenuto il suo simbolo.
Le regole del buon gusto seicentesco prevedevano che i soggetti dipinti nelle stanze di un palazzo dovessero essere adeguati alla destinazione d’uso delle stanze stesse: per questo motivo per decorare la stanza da dormire di Vittorio Amedeo II il pittore viennese Daniel Seiter raffigura un mito notturno, che ben si adatta alla stanza. Contornata da grandi cornici in stucco e preziose dorature, la tela presenta la storia di Diana ed Endimione.
Il mito racconta infatti che Diana, dea della caccia, si innamorò di Endimione, giovane e bellissimo pastore, al quale non poteva presentarsi dal vivo in quanto divinità. Chiese allora a Zeus di far sprofondare l’amato in un sonno perpetuo, così da poterlo visitare in sogno e trascorrere del tempo insieme a lui.
Seiter dipinge la dea avvolta da un luminoso disco lunare, uno dei suoi simboli, mentre tiene in mano una freccia ed è affiancata da due cervi, allusione alle cacce di cui Diana è protettrice. Ai suoi piedi, Endimione indossa un manto color porpora e riposa, appoggiando con eleganza il bel volto sulla mano destra, mentre un putto pare coprirlo per conciliarne il sonno. Intorno alla scena principale, allegorie e divinità fanno da spettatori a questa grandiosa composizione, una delle più raffinate tra gli apparati decorativi del Palazzo.
«Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza. / Quest’è Bacco e Arïanna, / belli, e l’un dell’altro ardenti; / perché ’l tempo fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti». Ve la ricordate la poesia di Lorenzo de’ Medici dedicata a Bacco e Arianna? Se anche a voi sono venuti in mente i ricordi della scuola, forse saprete anche chi sono i due protagonisti di questi versi e di diverse opere custodite nelle collezioni dei Musei Reali, tra le quali questo tondo dipinto da Marcantonio Franceschini alla fine del Seicento, recuperato e collocato sulla volta della Sala da Pranzo di Palazzo Reale quando questa fu rinnovata nel 1898. Oltre al tondo, alla storia di Bacco e Arianna sono dedicati anche un bozzetto per una scenografia per il Teatro Regio di Bernardino Galliari, esposto nel corridoio del secondo piano della Galleria Sabauda, e un sarcofago di età romana che appartenne alla collezione di antichità dell’industriale Riccardo Gualino.
Il mito racconta che Arianna, figlia del re di Creta Minosse, aiutò l’eroe Teseo a sconfiggere il terribile Minotauro e a uscire dal labirinto dove il mostro era stato rinchiuso. Innamoratasi del giovane, Arianna si imbarcò sulla sua nave, ma durante il sonno venne abbandonata sull’isola di Nasso. Da qui nasce anche il motto “essere piantati in (N)asso” per indicare chi tronca all’improvviso una storia d’amore… Ma torniamo al mito! Afflitta per la sua triste sorte, Arianna vagava per le spiagge dell’isola, quando vide comparire all’improvviso un rumoroso corteo di satiri, ninfe e baccanti, capitanati da Dioniso. Il dio, innamoratosi della bella principessa, la sposò e per festeggiare le nozze le donò un diadema d’oro. Il mito narra che, dopo essere state lanciate in cielo, le gemme del gioiello crearono la costellazione della Corona Boreale, a celebrazione del matrimonio divino appena compiuto.
«Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza. / Quest’è Bacco e Arïanna, / belli, e l’un dell’altro ardenti; / perché ’l tempo fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti». Ve la ricordate la poesia di Lorenzo de’ Medici dedicata a Bacco e Arianna? Se anche a voi sono venuti in mente i ricordi della scuola, forse saprete anche chi sono i due protagonisti di questi versi e di diverse opere custodite nelle collezioni dei Musei Reali, tra le quali un bozzetto per una scenografia per il Teatro Regio dipinto da Bernardino Galliari intorno al 1756 ed esposto al secondo piano della Galleria Sabauda, dove si trova anche un sarcofago di età romana che appartenne alla collezione di antichità dell’industriale Riccardo Gualino. Allo stesso soggetto è dedicato, poi, un tondo di Marcantonio Franceschini posto nella volta della Sala da Pranzo di Palazzo Reale.
Il mito di Arianna, figlia del re di Creta Minosse, aiutò l’eroe Teseo a sconfiggere il terribile Minotauro e a uscire dal labirinto dove il mostro era stato rinchiuso. Innamoratasi del giovane, Arianna si imbarcò sulla sua nave, ma durante il sonno venne abbandonata sull’isola di Nasso. Da qui nasce anche il motto “essere piantati in (N)asso” per indicare chi tronca all’improvviso una storia d’amore… Ma torniamo al mito! Afflitta per la sua triste sorte, Arianna vagava per le spiagge dell’isola, quando vide comparire all’improvviso un rumoroso corteo di satiri, ninfe e baccanti, capitanati da Dioniso. Il dio, innamoratosi della bella principessa, la sposò e per festeggiare le nozze le donò un diadema d’oro. Il mito narra che, dopo essere state lanciate in cielo, le gemme del gioiello crearono la costellazione della Corona Boreale, a celebrazione del matrimonio divino appena compiuto.
«Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia! / Chi vuole esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza. / Quest’è Bacco e Arïanna, / belli, e l’un dell’altro ardenti; / perché ’l tempo fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti». Ve la ricordate la poesia di Lorenzo de’ Medici dedicata a Bacco e Arianna? Se anche a voi sono venuti in mente i ricordi della scuola, forse saprete anche chi sono i due protagonisti di questi versi e di diverse opere custodite nelle collezioni dei Musei Reali, tra le quali un sarcofago di età romana che appartenne alla collezione di antichità dell’industriale Riccardo Gualino, ora esposto al secondo piano della Galleria Sabauda. Incentrati sullo stesso tema sono anche un bozzetto per una scenografia per il Teatro Regio dipinto da Bernardino Galliari intorno al 1756, anch'esso conservato in Galleria, e un tondo dipinto alla fine del Seicento da Marcantonio Franceschini e poi collocato sulla volta della Sala da Pranzo di Palazzo Reale.
Il mito di Arianna, figlia del re di Creta Minosse, aiutò l’eroe Teseo a sconfiggere il terribile Minotauro e a uscire dal labirinto dove il mostro era stato rinchiuso. Innamoratasi del giovane, Arianna si imbarcò sulla sua nave, ma durante il sonno venne abbandonata sull’isola di Nasso. Da qui nasce anche il motto “essere piantati in (N)asso” per indicare chi tronca all’improvviso una storia d’amore… Ma torniamo al mito! Afflitta per la sua triste sorte, Arianna vagava per le spiagge dell’isola, quando vide comparire all’improvviso un rumoroso corteo di satiri, ninfe e baccanti, capitanati da Dioniso. Il dio, innamoratosi della bella principessa, la sposò e per festeggiare le nozze le donò un diadema d’oro. Il mito narra che, dopo essere state lanciate in cielo, le gemme del gioiello crearono la costellazione della Corona Boreale, a celebrazione del matrimonio divino appena compiuto.
Vi è mai successo di desiderare a tal punto qualcosa da essere disposti a sacrificare ciò che di meglio avete per ottenerla? Questa è la storia di Berenice, protagonista di un dipinto del 1662 realizzato dal fiammingo Jan Miel e conservato nell’Appartamento della Regina Elena, al piano terreno di Palazzo Reale.
Originaria di Cirene, Berenice II è stata una delle regine d’Egitto. Sposò Tolomeo III nel 247 avanti Cristo, ma poco dopo le nozze dovette salutare il marito, costretto a partire per una guerra in Siria. Spaventata dall’idea che lo sposo non facesse ritorno, Berenice decise di invocare la protezione degli dèi. Si recò dunque nel santuario di Afrodite, dove offrì i suoi capelli alla divinità: la sua chioma era infatti ritenuta la più bella mai vista e quanto di più prezioso le appartenesse. Afrodite accolse di buon grado questo pegno d’amore e il re Tolomeo ritornò salvo in patria. Un giorno, però, i capelli scomparvero dal tempio e nessuno seppe più ritrovarli. Per scoprire chi li avesse rubati, vennero chiuse le porte della città e tutte le case setacciate, senza alcun risultato. Fu allora consultato il matematico e astronomo Conone, che invitò a rivolgere lo sguardo al cielo, dove era da poco comparso un nuovo gruppo di stelle, riunite a formare una V. Si capì allora che Afrodite non solo aveva gradito il dono di Berenice, ma lo aveva a tal punto apprezzato da renderlo una costellazione che ancora oggi gli astronomi chiamano Chioma di Berenice.
Nell’opera l’artista raffigura la regina nel tempio di Afrodite, con accanto la corona e lo scettro riposti su un cuscino di velluto rosso. Berenice offre i lunghi capelli biondi alla dea mentre in cielo splende già la costellazione a lei intitolata.
Una storia di passione, intrigo e amore quella tra Marte, dio della guerra, e Venere, dea della bellezza. Al piano terreno di Palazzo Reale, sulla volta della camera da letto che un tempo ospitò la principessa Maria Felicita, è rappresentato il corteggiamento tra le due divinità, dipinto a inizio Settecento dal pittore Daniel Seiter, che scelse un soggetto intimo per alludere alla dimensione privata della stanza. Tra eleganti stucchi e dorature, al centro del soffitto Marte, con la lancia in mano e l’elmo in capo, si avvicina a Venere, che regge tra le dita il pomo della discordia donatole da Paride. Il mito narra che Venere, sposata ufficialmente con Vulcano, si invaghì di Marte, con il quale si incontrava segretamente nel letto nuziale mentre il marito era lontano. Il Sole, che vede ogni cosa, si accorse del tradimento e lo riferì immediatamente a Vulcano, che per punire l’adulterio forgiò una rete invisibile e la mise intorno al letto dove i due amanti erano soliti unirsi. Una volta intrappolati, Marte e Venere furono derisi da tutto l’Olimpo, così come Vulcano aveva architettato.
Lo stesso soggetto è rappresentato in una piccola e preziosa tela dipinta dal Veronese, tra il 1575 e il 1580, acquistata dall’industriale Riccardo Gualino ed esposta al secondo piano della Galleria Sabauda.
La storia di passione e amore tra Marte, dio della guerra, e Venere, dea della bellezza, è protagonista di questa piccola tela di Paolo Veronese, dipinta tra il 1575 e il 1580, acquistata dall'industriale Riccardo Gualino ed esposta al secondo piano della Galleria Sabauda.
Il soggetto, raffigurato dal pittore Daniel Seiter anche al piano terreno di Palazzo Reale, sulla volta della camera da letto che un tempo ospitò la principessa Maria Felicita, è tratto dal mito che narra di come Venere, sposata ufficialmente con Vulcano, si invaghì di Marte, con il quale si incontrava segretamente nel letto nuziale mentre il marito era lontano. Il Sole, che vede ogni cosa, si accorse del tradimento e lo riferì immediatamente a Vulcano, che per punire l’adulterio forgiò una rete invisibile e la mise intorno al letto dove i due amanti erano soliti unirsi. Una volta intrappolati, Marte e Venere furono derisi da tutto l’Olimpo, così come Vulcano aveva architettato.
La triste storia di Danae è protagonista di questo dipinto della Galleria Sabauda, a lungo attribuito erroneamente a Paolo Veronese e oggi riconosciuto invece al pittore Giovanni Contarini. Si narra che Danae, figlia del re di Argo Acrisio, venne rinchiusa dal padre in una torre inespugnabile e protetta da guardie, affinché nessun uomo potesse avvicinarla. Era infatti stato predetto che il figlio della fanciulla sarebbe divenuto un grande eroe e avrebbe governato al posto di Acrisio, il quale però sarebbe morto per mano del nipote. Nonostante i tentativi di nascondere Danae a qualsiasi uomo, Zeus, trasformatosi in una pioggia d’oro, penetrò nella stanza della fanciulla durante un temporale e si unì a lei. Da questa unione nacque Perseo, l’eroe mitologico che taglierà la testa a Medusa e che causerà involontariamente la morte del nonno, proprio come profetizzato.
Nel dipinto del Contarini, Danae è ritratta nuda di schiena, in una posa morbida e audace, con i fianchi rivolti verso l’osservatore, coperti da un velo trasparente e avvolti da una sottile cintura d’oro e gemme. Con la mano sinistra tira verso di sé la cortina del letto per schermarsi dalla pioggia che, nel frattempo, si sta insinuando tra le sue lenzuola.
Protagonisti di quest’opera di Francesco Albani esposta al primo piano della Galleria Sabauda sono la ninfa Salmacide, che abitava la fonte Salmace, ed Ermafrodito, figlio, come suggerisce il suo stesso nome, di Ermes e Afrodite: la storia, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, narra di come la ninfa si fosse innamorata di Ermafrodito, giovane di rara bellezza. Un giorno il fanciullo, mentre si bagnava nelle acque della sorgente, venne avvicinato dalla divinità, che con insistenza tentò in ogni modo di consumare un rapporto. Ermafrodito, timido e scostante, urlò e iniziò a divincolarsi per sfuggire alla ninfa, la quale implorò gli dèi di impedire che la loro unione avesse fine. Dall’Olimpo fu esaudita la richiesta della Naiade e i due corpi vennero uniti in uno solo. La metamorfosi raccontata dal mito spiega l’origine delle innumerevoli rappresentazioni di corpi per metà maschili e per metà femminili, dalle fattezze androgine e dagli attributi misti.
L’Albani, che realizzò la tela tra il 1633 e il 1635, dipinse il momento in cui la ninfa si lancia sul giovane, immerso solitario nella fonte. Accanto a Salmacide, sulla sinistra, Cupido sta per scoccare una freccia, simbolo dell'amore di lei, ma sulla destra, accanto a Ermafrodito, un altro putto sta spezzando l’arco, segno del cuore infranto e dello spavento di lui.
Parte della mitologia legata a Ercole, oltre alle più note dodici fatiche, è la sua tragica storia con la moglie Deianira, raccontata nei Musei Reali in due tele della Galleria Sabauda realizzate da Pieter Paul Rubens e da Laurent Pêcheux.
Se Rubens nella sua tela raffigura una scena che lascia presagire l'epilogo funesto della storia, il dipinto di Pêcheux, compiuto nel 1762, illustra l’inizio della tragica vicenda, ossia il momento in cui Deianira venne avvicinata e molestata dal centauro Nesso sulle sponde del fiume Eveno: accortosi di quanto stava accadendo, Ercole trafisse con una freccia Nesso che, poco prima di esalare l’ultimo respiro, donò a Deianira un’ampolla contenente il suo sangue e la promessa che quel filtro magico le avrebbe garantito l’eterno amore dello sposo. In seguito, quando Ercole si invaghì della principessa Iole, Deianira decise di usare il dono di Nesso: regalò dunque al marito una veste intrisa del sangue del centauro, che si rivelò essere in verità un potente veleno. La veste bruciò e logorò le carni dell’eroe, fino a causarne la morte. Atterrita da quanto accaduto, anche l’incauta ragazza cercò la morte, ponendo fine alla tragica vicenda.
Parte della mitologia legata a Ercole, oltre alle più note dodici fatiche, è la sua tragica storia con la moglie Deianira, raccontata nei Musei Reali in due tele della Galleria Sabauda realizzate da Pieter Paul Rubens e da Laurent Pêcheux.
Un giorno Deianira venne avvicinata e molestata dal centauro Nesso sulle sponde del fiume Eveno: accortosi di quanto stava accadendo, Ercole trafisse con una freccia Nesso che, poco prima di esalare l’ultimo respiro, donò a Deianira un’ampolla contenente il suo sangue e la promessa che quel filtro magico le avrebbe garantito l’eterno amore dello sposo. Pêcheux nel suo dipinto raffigura questo momento, illustrando così l'inizio della tragica vicenda; quando Ercole si invaghì della principessa Iole, infatti, Deianira decise di usare il dono di Nesso: regalò dunque al marito una veste intrisa del sangue del centauro, che si rivelò essere in verità un potente veleno. La veste bruciò e logorò le carni dell’eroe, fino a causarne la morte. Atterrita da quanto accaduto, anche l’incauta ragazza cercò la morte.
La monumentale tela dipinta da Rubens intorno al 1638 mostra la giovane sposa insieme a una Furia, che le porge la veste incriminata, simbolo della tentazione e allusione all’imminente uccisione di Ercole. L’opera è considerata una delle produzioni più mature del pittore fiammingo, caratterizzata da pennellate decise, da volumi scultorei e da un utilizzo della luce ispirato alla pittura di Tiziano.
Nel 1621 il pittore fiammingo Antoon van Dyck partì per un viaggio in Italia, alla scoperta di numerose città e corti: da Genova a Roma, da Firenze a Mantova. Ispirandosi alla pittura di Tiziano, l’artista realizzò tra il 1631 e il 1632 il dipinto Amarilli e Mirtillo, oggi esposto al primo piano della Galleria Sabauda. La scena, di ambientazione campestre, è tratta dalla trama di un dramma pastorale composto a fine Cinquecento da Giovanni Battista Guarini, nel quale venivano narrati gli intrecci amorosi di principi, ninfe e principesse vissuti al tempo dell’Arcadia.
Il dipinto, proveniente dalle raccolte d’arte del Principe Eugenio di Savoia Soissons, raffigura il pastore Mirtillo che, dopo essersi travestito da ragazza e aver vinto una gara di baci tra ninfe, pone una corona di fiori sul capo di Amarilli, la bella fanciulla di cui era innamorato. La ghirlanda di fiori viene donata alla giovane ragazza come pegno d’amore, mentre tutt’intorno si muovono i diversi personaggi della composizione, compresi gli amorini intenti a scoccare le frecce di Cupido sul capo dei due protagonisti. A van Dyck è attribuita la realizzazione della maggior parte delle figure del quadro, che esprimono il grande interesse maturato dal maestro nordico per la pittura italiana tardo-cinquecentesca e per i soggetti colti tratti dalla letteratura e dalla musica.
Nelle sale della Galleria Sabauda è esposta una grande tela del pittore Pier Francesco Mola, realizzata intorno al 1650, che ritrae due dei protagonisti delle cosiddette Argonautiche, un poema epico che racconta il mitico viaggio di Giasone e del gruppo di eroi noti come Argonauti per recuperare il vello d’oro, che aveva la proprietà di curare ogni ferita e di rendere chi lo indossasse padrone della morte. Tra gli eroi che accompagnano Giasone nel viaggio si trovano anche i fratelli Ida e Linceo, principi di Messene: i due combatterono diverse battaglie, e tra loro si dice che Ida fosse il più forte e il più violento. La vicenda che li vede protagonisti è la contesa con i Dioscuri, Castore e Polluce, fratelli di stirpe divina. Si racconta che, dopo una razzia di bestiame, Ida avesse ingannato i rivali per ottenere la parte di bottino migliore. Dopo aver diviso in quattro pezzi una mucca, avendo stabilito che la scelta delle bestie più belle sarebbe spettata alla coppia che avrebbe finito per prima i pezzi dell’animale, Ida divorò rapidamente la sua fetta e aiutò il fratello Linceo. A quel punto iniziò una contesa con i Dioscuri, che portò alla morte di Castore per mano del violento Ida. La lotta venne interrotta da Zeus, padre dei gemelli divini, il quale folgorò con una saetta Ida.
L’opera di Pier Francesco Mola ritrae Ida e Linceo mentre si arrampicano su un albero in mezzo alla foresta. La resa massiccia e plastica dei corpi ha fatto a lungo pensare che la tela fosse stata realizzata da Annibale Carracci, maestro del Seicento bolognese e tra i più noti artisti italiani dell’epoca. Ida, con i piedi ben saldi a terra e con indosso una semplice tunica, tiene saldamente la coscia del fratello Linceo: sembra quasi di percepire quella stretta vigorosa avvolta dal silenzio del bosco.
Al secondo piano della Galleria Sabauda è esposto un dipinto del pittore francese Pierre Subleyras che racconta un momento del tormentato amore tra Cupido, figlio di Venere, e Psiche, incantevole ragazza mortale, raccontato nelle Metamorfosi di Apuleio.
Il mito racconta che il dio, ferendosi con una delle sue frecce, si innamorò accidentalmente della giovane fanciulla. Purtroppo, in quanto mortale, Psiche non poteva vedere dal vivo il suo amante e trascorreva così le giornate in un incantevole palazzo popolato di spiriti servizievoli, che provvedevano a soddisfare ogni suo desiderio, in attesa della sera, quando, a luci spente, poteva incontrare Cupido. Un giorno la giovane, persuasa dalle sue sorelle invidiose che il misterioso amante fosse un terribile mostro, decise di scoprire chi la visitava ogni sera nel letto. Dopo avere nascosto un pugnale e una lanterna, nel cuore della notte Psiche avvicinò la luce al corpo del dio, svelando infine la sua identità. Scossa dalla scoperta inaspettata, per errore fece gocciolare sul corpo di Cupido una goccia d’olio della lanterna, svegliandolo di soprassalto. Secondo il mito, da quel momento Psiche sarebbe stata sottoposta a numerose prove, ma sarebbe infine riuscita a sposare il suo amante, dal quale sarebbe nato un figlio di nome Edone, ossia Piacere.
Pierre Subleyras rappresenta il momento nel quale la fanciulla si accosta al dio. Avvolti dalla luce morbida della lanterna e dai drappi colorati dell’alcova, i due personaggi sono rappresentati con un tratto elegante ed espressivo: Cupido dorme un sonno profondo mentre Psiche lo osserva con curiosità, toccandogli delicatamente il piede.
Tra i dipinti della Collezione Gualino esposti al secondo piano della Galleria Sabauda, che raccoglie le opere acquistate nei primi del Novecento dall’industriale Riccardo Gualino, si trova anche un’opera realizzata verso la fine del Cinquecento e tradizionalmente attribuita a Tiziano: protagonista dell’opera è Leda, che fu regina di Sparta e madre di altre due celebri donne, Clitennestra, moglie e carnefice di Agamennone, ed Elena, che, promessa da Afrodite a Paride, verrà da questi rapita scatenando così la guerra di Troia. Nel dipinto Leda è rappresentata, come sempre sin dall’antichità, affiancata da un cigno: si tratta di Zeus, che, attratto dalla bellezza della regina e assunta la forma animale, volò fino al fiume dove la donna si stava immergendo. Il mito racconta che Leda, dopo essersi unita con il re degli dèi, la sera stessa abbia replicato l’atto anche con il marito Tindaro. Per questo motivo le versioni della storia sono discordanti nell’attribuire la paternità dei figli che nasceranno da lei: Castore e Polluce, i due Dioscuri, ed Elena e Clitennestra.
L’opera della Collezione Gualino presenta la regina seminuda con indosso preziosi gioielli e accanto un cigno dal collo ritorto che le si sta avvicinando. La scena è disturbata dalla presenza di Cupido, che, rivolto verso l’osservatore con sguardo accigliato e l’arco e le frecce poggiate ai piedi, sembra reggere Zeus porgendolo a Leda. La composizione si rifà al modello della celebre Venere allo specchio, un’opera di Tiziano conservata alla National Gallery of Art di Washington, con la quale la tela del nostro museo condivide la figura femminile e l’impostazione della scena: probabilmente per via della diversa volontà del committente dell’opera, che volle modificarne il soggetto, Cupido qui regge non uno specchio come nell’opera di Washington, ma il cigno, che identifica subito la donna come Leda.
Sin dall’Antichità il gruppo femminile delle Tre Grazie, composto da tre giovani donne abbracciate, viene rappresentato in rilievi, affreschi e pitture: anche nelle collezioni dei Musei Reali il tema ricorre più volte, con opere realizzate da importanti artisti come la tela dipinta da Pietro Muttoni, detto della Vecchia, che si trova al secondo piano della Galleria Sabauda.
La versione più diffusa del mito racconta che le Grazie nacquero dall’unione di Zeus ed Eurinome, nonostante esistano anche altri racconti nei quali, per esempio, le divinità sono figlie di Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, e di Dioniso, dio dell’ebbrezza e del vino. Tradizionalmente associate alla gioia di vivere, alla musica e ai banchetti, le Tre Grazie hanno dei nomi parlanti: Aglaia, ossia splendore, Eufrosine, che indica gioia e letizia, e infine Talia, adorna di fiori e anticipatrice della primavera. La maggior parte delle rappresentazioni mostra le Grazie abbracciate, con il corpo nudo e sensuale, e con la figura centrale rivolta di spalle.
Nell’opera di Pietro Muttoni, datata intorno al 1650, le divinità sono ritratte con forme e lineamenti tipici della pittura di Rubens, tanto da essere state attribuite in passato al celebre pittore fiammingo. La sorella di destra, dallo sguardo malinconico, ha i capelli intrecciati con un nastro azzurro, che le scende sinuosamente sulla spalla. In questo dettaglio, la critica ha voluto immaginare un velato riferimento ad altre celebri sorelle della mitologia, le Tre Parche, simbolo dell’inesorabile scorrimento del tempo e della vita mortale, destinata a essere recisa. Troviamo le Tre Grazie anche in alcuni disegni della Biblioteca Reale, tra cui un’opera autografa del celebre Antonio Canova, che qui realizza uno studio preparatorio in cui tutte e tre le giovani sono ritratte frontalmente.
Nelle Metamorfosi di Ovidio è narrato un episodio a cui il pittore fiammingo Paul Brill dedica, intorno al 1606, un dipinto oggi esposto al secondo piano della Galleria Sabauda: protagonisti sono il dio Mercurio e un vecchio pastore di nome Batto, che aveva osservato Mercurio approfittarsi di un momento di distrazione del dio Apollo per rubare le sue mandrie di buoi dal pascolo in cui le aveva portate. Mercurio, accortosi di essere stato osservato da Batto, comprò il suo silenzio regalandogli una mucca, e Batto acconsentì allo scambio, promettendo di restare muto come una pietra. Per mettere alla prova la buona fede del pastore, Mercurio si trasformò in un giovane viandante e, tornato da Batto, gli promise due animali se avesse rivelato dove le mandrie rubate erano state nascoste: Batto, tentato da questa proposta allettante, decise di rivelare il nascondiglio, infrangendo il patto con il dio. Mercurio, adirato per la fiducia mal riposta e per il tradimento subito, svelò la sua vera identità e, per punizione, trasformò Batto in un sasso, assicurandosi il silenzio eterno.
Paul Brill, noto ai suoi contemporanei per la pittura di paesaggi e per le incisioni di vedute naturalistiche, ritrae Mercurio, riconoscibile nella figura vestita di rosso grazie ai calzari alati, mentre inganna Batto, che gli indica il nascondiglio delle mandrie di Apollo. Il vero protagonista della tela è però il paesaggio: arioso, lussureggiante e dettagliato, esprime tutto l’amore dei fiamminghi per la resa dal vero.